La stipula del  “patto di non concorrenza” tra datore di lavoro e prestatore di lavoro, è regolata  dall’art. 2125 c.c. 
di lavoro. Con tale accordo le parti stipulanti prolungano oltre la cessazione del rapporto di lavoro il divieto di
concorrenza previsto nei confronti del lavoratore dall’art. 2105 c.c.
L’accordo, per espressa previsione normativa, deve essere stipulato in forma scritta  deve
necessariamente prevedere i seguenti elementi essenziali:
1)  periodo di validità predeterminato, che rispetti i limiti di legge individuati dall’art. 2125 c.c., ossia 5 anni per le
figure dirigenziali e 3 anni per i restanti lavoratori;
2)  limite di estensione territoriale appositamente previsto;
3)  limite di oggetto, ovvero di attività lavorativa soggetta a limitazione;
4)  apposito corrispettivo quale controprestazione dell’impegno alla non concorrenza.

Vi sono svariate sentenze relative al patto di non concorrenza e per citarne alcune:
– la sentenza n. 13282/2003 della Corte di Cassazione che, in tema di territorialità, sancisce che “
l’elemento territoriale è stato ritenuto non eccessivamente ampio proprio se rapportato alle attività oggetto del
patto, potendo, appunto, l’interessato dispiegare il proprio bagaglio professionale (…) in tutti i settori
merceologici non coperti dal patto ”, chiarendo la stretta connessione tra limiti di luogo e limiti di oggetto,
entrambi i quali non devono comprimere eccessivamente la capacità professionale e reddituale del lavoratore;
– in tema di oggetto, la  sentenza sopra richiamata,  spiega che “il patto di non concorrenza,
previsto dall’articolo 2125 c.c., può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del
datore di lavoro e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto.
Il patto di non concorrenza  è, perciò, nullo allorché la sua ampiezza sia tale da comprimere la esplicazione della concreta
professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale”.
– con riferimento al corrispettivo, la sentenza n. 10062/1994 della Corte di Cassazione,  chiarisce che
quest’ultimo non può essere simbolico o irrisorio e deve essere congruo e proporzionato al sacrificio assunto
dal lavoratore. In buona sostanza, non risulta possibile individuare un corrispettivo specifico e corretto, ma si
deve tenere conto che, in presenza di crescenti limitazioni, si dovranno prevedere crescenti controprestazioni
economiche. Il corrispettivo, ad ogni modo, risulterà non dovuto e quindi restituito, poiché privo di causa, in
presenza di inadempienza contrattuale del lavoratore.